Il dono della cura

By 20 Marzo 2023 News No Comments

Nell’affresco sulla “Chiesa in uscita” che papa Francesco ci consegna in Evangelii Gaudium, al numero 24 è possibile rintracciare alcuni verbi ecclesiali declinabili nella prospettiva della cura. La comunità cristiana, in effetti, chiamata a essere madre nella fede, annuncia il Vangelo curandosi dei suoi figli, accompagnandoli senza trattenerli, abbracciandoli senza sequestrarli, gioendo per i frutti inediti che l’amore stesso di Dio suscita nella vita di ciascuno (per scaricare in pdf “il dono della cura” su Segnoweb, clicca qui). 

Coinvolgersi

“Coinvolgersi” è il primo verbo su cui ci soffermiamo: prenderci cura di qualcuno significa prima di tutto uscire dall’indifferenza, dalla fredda assenza di affetti, per lasciarci muovere e commuovere dalla presenza degli altri, andando loro incontro. Il verbo, dunque, ha un’accezione primariamente passiva: è Dio stesso che, in Gesù, nel dono del suo Spirito, ha preso l’iniziativa di amarci, in modo gratuito e immeritato. Da questo dono nasce ogni volta il dinamismo della cura come compito verso chiunque: curare è riconoscere di essere stati curati, accarezzare è fare memoria di carezze che abbiamo ricevuto, coinvolgersi nel servizio è la risposta all’imprevedibile coinvolgimento di altri nei nostri confronti. Dono e compito, promessa e responsabilità si intrecciano nel gesto profetico della cura, che smuove gli affetti e appassiona la mente (in una prospettiva più ampia, rileggere qui l’articolo di don Fabrizio De Toni sulla “via della cura” riferita soprattutto alla 49ª Settimana sociale dei cattolici italiani).

«Lasciati amare»

D’altronde, proprio il Papa fa precedere l’esigenza del coinvolgimento ecclesiale dalla presa di iniziativa da parte di Dio, ripartendo dalla suggestiva immagine della lavanda dei piedi: «Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: sarete beati se farete questo (Gv 13, 17)». Eppure, quanta difficoltà da parte di Pietro nel lasciarsi voler bene da Gesù! «Lasciati amare», sembra voler esclamare il Maestro, «lascia che sia io a compiere questo gesto verso di te, perché a meno di tanto non potresti a tua volta lavare i piedi ai fratelli e alle sorelle che incontrerai». Essere lavati, nutriti, accolti è la condizione perché il cuore sia educato a un abituale coinvolgimento di cura e la memoria grata di chi ci ha voluto bene è ciò che sblocca ogni volta la tentazione della chiusura e del difensivismo sterile. Ancora il Papa così si esprime, a proposito di ciò che è in grado di accendere la risposta coraggiosa al coinvolgimento amorevole di Dio: «La comunità evangelizzatrice si mette mediate opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo».

Coinvolgersi nella cura, dunque, è gesto spirituale, perché ci fa toccare il Signore nella ferita dei fratelli e prende forma su di noi attraverso un triplice tratto: lo spazio centrale dato all’amore preveniente di Dio, la sua condivisione ecclesiale, il riconoscimento della fragilità come potenza di umanità.

La centralità dell’amore di Dio

Il gesto cristiano della cura trova il suo fondamento e la sua continua rigenerazione dall’incontro con l’annuncio liberante del Regno di Dio in Gesù. È la lieta notizia del Vangelo che, irrompendo nella storia come promessa di misericordia, smuove e chiede coinvolgimento, risveglia e rilancia il nostro essere per gli altri. Prendersi cura non è generico attivismo, neppure ansioso volontarismo, ma risposta grata alla centralità di un amore che ci precede e che possiamo percepire dentro i più quotidiani gesti di prossimità giunti sulla nostra pelle. Il riposo domenicale, che fa spazio al Pane e alla Parola, è un’educazione imperdibile alla cura, nella misura in cui ci invita a fermarci e a fare spazio a quell’annuncio di liberazione, perché ci guarisca dalla tentazione dell’indifferenza immobile, che sarebbe l’esatto contrario del coinvolgimento. Una bella provocazione: il cristiano sa che per coinvolgersi e agire deve innanzitutto fermarsi e lasciare che risuoni una notizia di salvezza più grande di lui.

La condivisione ecclesiale

Il gesto cristiano della cura, poi, è coinvolgimento personale, certo, ma non individualistico: muoversi verso gli altri è operazione relazionale, compiuta non da singoli, ma da un’intera comunità, è movimento che a sua volta genera fraternità, edificando la comunione a partire dalla fede. Prenderci cura gli uni degli altri è come un lavoro di tessitura che, mettendo la vita in rete, realizza passo dopo passo una solidarietà sociale e una testimonianza fraterna entro cui è all’opera il Vangelo stesso, in presa diretta. Anche in questo caso il riposo domenicale è istruttivo: non solo perché l’Eucaristia è la presenza de Signore Gesù nella forma dell’assemblea che si raduna, ma perché fermarsi attorno al Signore ci mette nelle condizioni di accorgerci dei tanti che hanno bisogno di noi e che spesso non vediamo proprio perché non rallentiamo mai. Il gesto della cura condivisa diviene così il segno più forte dell’esistenza ecclesiale, a favore di tutti.

Il riconoscimento della fragilità

Lasciarsi curare e prendersi cura non è un coinvolgimento titanico, né un’impresa di eroi potenti. Anzi, è un muoversi che nasce dal riconoscimento della propria fragilità come vera e unica potenza di umanità. Chi si lascia amare non ha timore di piangere, di chiedere aiuto, di sentirsi bisognoso della presenza degli altri e più accoglie la propria fragilità e più saprà comprendere, custodire, accompagnare quella altrui. Ci viene ancora una volta in aiuto il riposo domenicale, che interrompe la tentazione di una nostra presunta onnipotenza ricordandoci che non tutto dipende da noi, che infallibilità e perfezione non ci renderebbero umani. D’altronde, non ci si prende cura di cose infallibili e perfette, ma di ciò che è fragile. Fermarsi, rallentare, riposare non è una forma di ozio, ma capacità di restituirci un limite, per cogliere che soltanto nella reciproca cura è possibile camminare e costruire un mondo più umano.

Quanta profondità spirituale, dunque, si manifesta nel verbo “coinvolgersi”! Ci muoviamo perché altri si sono mossi verso di noi, non rimaniamo indifferenti perché altri non lo sono stati, almeno una volta, nei nostri confronti. È da questo coinvolgimento pieno di cura che nascono le cose più belle, nella Chiesa e nel mondo di tutti i giorni.    

Il senso della Domenica

Quando alla domenica ci ritroviamo nelle nostre comunità a spezzare il Pane, ad ascoltare la Parola, a vivere la fraternità, non dimentichiamoci che quello è il momento in cui ci stiamo già coinvolgendo, prendendoci cura di noi stessi e di ogni fratello e sorella. Non certo perché siamo i migliori o i più santi, ma perché, con un coraggioso atto di fede, lasciamo che le cose non partano più semplicemente da noi, ma da Uno che ci ha lavato i piedi, dentro una fraternità che contribuiamo a costruire insieme, nell’accoglienza della reciproca fragilità, tesoro prezioso da cui soltanto può scaturire il miracolo inedito di una cura coinvolgente e appassionata. 

In effetti, come ricorda Isabella Guanzini in Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile (Ponte alle Grazie, 2017), è «soltanto a partire dalla percezione dei segni della fragilità propria e altrui che può generarsi perdono e non odio o rivalsa: soltanto dalla tenerezza, come speciale sensibilità per i segni della vulnerabilità, può generarsi amore dell’altro. Il legame innegabile fra amore e tenerezza, essenziale nell’esperienza erotica o nell’affetto materno, nomina qui soprattutto la possibilità di “tendere” verso l’altro senza alcuna carica aggressiva o intenzione offensiva, a partire dalla coscienza elementare della comune mancanza. Per resistere al male ci vuole un animo tenero: la sfida più dura mai affidata all’umano». Proprio questo è il gesto miracoloso, eppure quotidiano, della cura.
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